La pastorizia e l’utilizzo del latte e la sua trasformazione, hanno tradizione antichissime. La legenda di Polifemo, è tramandata e collocata nell’area etnea nelle terre di ACI ed in particolare ad Acicastello.
La Sicilia in epoca romana è il granaio di Roma, ma anche la pastorizia era particolarmente sviluppata. Lo studio degli autori classici evidenzia come già in epoca antica la tradizione casearia siciliana fosse riconosciuta per la fama.
La Sicilia è la seconda regione italiana per patrimonio ovino allevato e occupa le prime posizioni per la produzione del latte. La pastorizia si concentra principalmente nelle aree collinari e montuose delle province di Palermo, Agrigento, Enna, Trapani, Catania e Messina ed ha caratterizzazione estensiva semiestensiva a conduzione prevalentemente familiare, anche se negli ultimi anni si vanno affermando interessanti realtà semi-intensive.
Ancora oggi la pastorizia è poco studiata dagli antropologi e anche nelle testimonianze di Giuseppe Pitrè, compaiono pochi richiami sull’argomento. Un pò più attenzione al tema è stata data da Cristoforo Grisanti, mentre ad Antonio Uccello, dobbiamo la documentazione sulla produzione casearia nell’Isola.
L’area nel quale si sono affermati gli studi sul pastoralismo, sono prevalentemente del territorio madonita che tuttavia nel tempo ha cominciato ad impoverirsi per quanto concerne la pastorizia.
Gli anni Novanta, coincidono con il declino della presenza dei pastori in questa area un tempo particolarmente vocata alla pastorizia. Il declino è anche coinciso con l’istituzione del Parco che alla fine degli anni Ottanta ha portato al divieto di pascolamento del bestiame. Anche le normative europee e le regolamentazioni sull’igiene e la salute pubblica hanno praticamente messo fuori legge questa attività economica e reso impossibile la caseificazione nelle tradizionali strutture rese non più idonee con la nuova legislazione.
La pastorizia siciliana, di tipo tradizionale, ridimensionata specialmente nelle zone interne ha sofferto e soffre e vive la difficoltà ad adattarsi alle direttive europee lontane dalla cultura del territorio e distante dalle tradizioni autoctone. A contribuire al declino le carenze strutturali e la parcellizzazione dei terreni dediti alla pastorizia e aziende con un numero di capi esiguo per resistere ad un mondo che fa della competitività il valore primario. Alcuni antropologi hanno parlato di “catastrofe antropologica” per il sistema agricolo siciliano e a tale catastrofe non si sottrae il settore zootecnico. La pressione normativa in un settore diversificato dove ogni azienda rappresenta un nucleo unico di tradizioni familiari tramandate da secoli. La catastrofe antropologica coincide con l’azzeramento della “biodiversità” delle tradizioni della pastorizia siciliana.
La zootecnia siciliana presenta oggi diversi problemi, soprattutto nelle zone interne. Sostanzialmente, la domanda che ancora oggi ci si pone è in che modo le istituzioni politiche e l’assistenza tecnica abbiano interagito con le aziende pastorali nell’ultimo cinquantennio.
Le razze ovine principalmente allevate sono la comisana, la valle del Belice e incroci tra le razze locali e la pecora di razza sarda. Nella maggior parte degli allevamenti ovini è il pastore stesso a provvedere alla mungitura e alla trasformazione diretta del latte e alla conservazione dei derivati. L’elettrificazione, la disponibilità di acqua e la viabilità costituiscono spesso un problema, i locali sono in molteplici casi fatiscenti e la strumentazione utilizzata per la lavorazione del formaggio talora non rispetta le norme comunitarie. Per questi motivi il pastoralismo madonita ha dovuto fare i conti con le direttive emanate dall’UE, situazione ha indotto al ridimensionamento e alla scomparsa della pastorizia in diverse comunità.
Se da una parte vi sono i limiti strutturali aziendali e la mancanza della volontà di adattamento alle necessità e alle normative indotte dalla “modernità” vi è dall’altra una mancanza assoluta di una sensibilità politico-economica delle istituzioni ad accompagnare e aiutare gli addetti del settore a trovare il sistema di riadattarsi alle esigenze normative cercando di garantire la salvaguardia della tradizione e identità del territorio.
Oltre alla mancanza di politiche formative ed informative per gli addetti del settore da parte delle istituzioni, vi è anche la mancanza assoluta di politiche infrastrutturali per rendere servizi e incentivare il settore.
Non considerare che perdere il patrimonio di pratiche e di saperi tradizionali è una perdita non solo identitaria, ma la perdita di un patrimonio storico culturale e antropologico è visione miope.
Alla perdita di questi saperi e di queste pratiche si accompagna la perdita di prodotti tipici del territorio contribuendo al depauperamento del patrimonio immateriale di una comunità.
Altro limite del settore è legato alle carenze infrastrutturali del territorio siciliano che determina i limiti di commercializzazione e distribuzione dei prodotti che escono dalle regole di mercato. I prodotti non riuscendo ad essere valorizzati da opportune strategie commerciali vengono deprezzati rendendo poco remunerativo rispetto ai sacrifici produttivi rendendo antieconomico perseverare nell’attività imprenditoriale. Gli operatori quindi divengono sempre più anziani e il rapporto fra impegno lavorativo e riscontro economico disincentivano i giovani ad avvicinarsi all’impresa familiare.
Sarebbe auspicabile che le istituzioni regionali siciliane si adoperassero per creare le condizioni perché questo antico settore produttivo possa essere valorizzato, possano essere riconosciuti e valorizzati i prodotti, possano essere favorite azioni commerciali e che il settore possa tornare attrattivo e offrire uno sbocco professionale adeguato e dignitoso per i giovani che volessero intraprendere nel settore.
Fonte social: Siculomania