Il mio paese, per chi non lo sapesse, è conosciuto nella zona come il paese di li scecchi, perché ha dato i natali a diverse generazioni di artigiani del gesso, che lo estraevano nelle cave non lontane dal paese, lo ripulivano dalle impurità e lo andavano a vendere nei paesi vicini, dovunque ce ne fosse bisogno per preparare la malta per le opere di muratura.

Ma il mansueto animale non aveva mai eccitato la mia immaginazione. Finché una mattina… mentre respiravo polvere e muffa del 1714 nella severa sala di studio dell’Archivio di Stato di Palermo, intento a scavare con l’ansietà di un archeologo attorno al fittone delle mie radici, mi trovai d’improvviso tra le mani un rivelo di anime e beni contrassegnato dal rozzo segno di croce di un mio antenato allora quarantenne.

Non se la passava poi tanto male, la buonanima: possedeva casa, stalla e pagliera, campi e vigna, una giumenta, due pariglie di buoi, quattro vacche, una “inizia” e due “balduini”, di cui uno vecchio e uno di quattro anni, zoppo. Ora, a parte il sudore versato per interpretare la pessima grafia dell’oscuro prete che aveva compilato il rivelo, non capivo che razza di bestie fossero i balduini.

Consultai ben quattro dizionari senza trovare nemmeno una traccia di quegli animali misteriosi. M’informai con archivisti e studiosi. Niente, ne sapevano meno di me. Per farla breve, la mia curiosità sarebbe rimasta inappagata in eterno se ad un certo momento non si fosse profilato nella sala di studio un inviato speciale della Divina Provvidenza camuffato da colto padre gesuita.

Mi rivolsi anche a lui… E appresi che i balduini o baldovini altro non erano che asini, «asini a tutti gli effetti» celiò il sant’uomo, «capaci di ragliare e di cacciarsi le mosche con la coda». Approfittando ancora della sua cortesia, gli chiesi il significato etimologico di quello strano nome e lui mi spiegò che baldovino deriva dal francese antico Bauduin, l’asino delle favole d’oltralpe. Misi perciò a soqquadro tutti gli scaffali gravati da dizionari stranieri alla ricerca dei possibili modi di chiamare l’asino, saltando disinvoltamente dal baudet francese all’Esel tedesco, al donkey inglese, al burro spagnolo, dal quale pare derivi l’epiteto “burino” che i Romani tuttora riservano ai pronipoti di quanti un tempo arrivavano nel centro nell’Urbe in groppa all’asino.

Esaurita la consultazione dei vocabolari, passai mentalmente in rassegna i termini dialettali della docile cavalcatura su cui il Messia entrò trionfalmente a Gerusalemme. Me ne sovvennero pochini, a dire il vero: ciuccio, sumeri, sumaru, ciucci e naturalmente, prima di ogni altro, sceccu. Ma mi accontentai perché, statistiche alla mano, questi appellativi coprivano più del sessanta per cento della popolazione asinina italiana. E mi sentii riempire il petto dall’orgoglio pensando che si chiamava sceccu un asino su quattro.

Potevo riservare allo sceccu minori riguardi di quanti ne avevo dedicati al balduino? Mai e poi mai! Avviai immediatamente una ricerca anche sul significato etimologico di sceccu. E m’impelagai in una ridda di ipotesi da cui non sono stato mai più capace di uscire. Non mi convincono né le tesi del Dizionario Etimologico Siciliano del Pasqualino che farebbero derivare sceccu dall’ebraico scech, cioè quieto, oppure da sciak, dimesso, né i compiaciuti arzigogoli di chi, all’indomani dell’unità d’Italia, inseguiva l’improbabile deriva ciuco, ciuccio, sciuccu, sceccu, senza dimostrare il resto di niente. Se poi abbia ragione il filologo tedesco Gerhard Rohlfs, che non esclude una lontana parentela della parola siciliana con la corrispondente turca esèk (che si pronuncia escek), è questione, a detta degli esperti, tutta da dimostrare.

Ma, con buona pace di tutti i dubbiosi di questo mondo, nel mio piccolo io un’idea me la sono fatta nel primo pomeriggio di un bel giorno di primavera dei primi anni Novanta quando, in occasione del congresso regionale della Cia siciliana, ho avuto l’onore di fare da cicerone nelle vie di Palermo nientedimeno al presidente della maggiore organizzazione degli produttori agricoli turchi, che parlava bene l’italiano essendosi laureato a Firenze.

Usciti da un ristorante satolli e quasi brilli, abbiamo fatto un po’ di strada insieme discutendo di facezie colossali, tipo “Mamma li turchi”, “li turchi su arrivati a la marina”, “cosi turchi”. Ad un certo momento, in un vicolo nei pressi del Politeama vidi un asinello attaccato ad un carrettino carico di broccoli e carciofi di Cerda. «Come si chiama in Turchia quell’animale?», chiesi all’ospite. «Escek», fu la sua risposta. «Quasi come da noi: sceccu!», spiegai convinto di chiudere così l’argomento.

E invece no, il turco aggiunse: «Forse i primi asini arrivarono in Sicilia dalla Turchia».
“Sarà vero?”, mi chiesi mentalmente, ma sapevo bene che di scontato non c’è nulla a proposito dell’asino, e continuo a pensarla ancora oggi così. Ha limitate capacità intuitive e intellettive, vuole un inveterato luogo comune. Ma era tanto stupido quell’asino della favola di Esopo che, vistosi lì lì per essere sbranato dal lupo, ideò uno stratagemma che gli consentì di rompere i denti alla belva? Prendiamo poi la scenetta del Presepio: che ci faceva l’asino nella grotta di Betlemme? Riscaldava forse Gesù Bambino, come ci hanno insegnato al catechismo? Tutto il contrario: «Quell’asinaccio insolente – sono parole di Giuseppe Pitrè –, agitando le lunghe orecchie e alitando violentemente, raffreddava i pannolini del Bambino», facendo incavolare di brutto il Padre Eterno che non perse tempo a maledirlo.

Ma forse le cose andarono in modo un po’ diverso, se c’è ancora chi giura e spergiura che la maledizione gli fu data perché appena vide nascere Gesù, quella bestia si mise a ragliare in modo così spaventevole che giusto per miracolo non fece seccare il latte a Maria Santissima. Ad ogni modo, quali che siano stati i motivi della grave decisione divina, l’asino fu maledetto e perciò, a differenza di certi scomunicati della Padania, nessun siciliano timorato di Dio (tranne uno di mia conoscenza di cui mi occuperò quanto prima) ha mai mangiato carne asinina, a meno che non gliela abbiano propinata a sua insaputa sotto forma di salumi.

L’asino aveva però una pessima reputazione ancor prima del fattaccio di Betlemme: per i pelati sudditi del faraone l’asino rosso era una delle entità più pericolose che l’anima incontrava dopo la morte. Aveva qualcosa in comune con la «Bestia scarlatta» dell’Apocalisse? Forse. Ma non è il caso di scommetterci, anche perché l’asino non era per tutti creatura malefica. Anzi, a detta di Pindaro, aveva un ruolo importante nei culti apollinei. Era addirittura considerato sacro in molte tradizioni.

Gli stessi Ebrei erano accusati di adorare l’asino. E la calunnia di onolatria non risparmiava i Cristiani, a giudicare da un graffito del Palatino, ritrovato nel 1857, raffigurante un Crocifisso dalla testa asinina, un suo devoto e la scritta «Alessandro adora il suo Dio». Ma, a prescindere da tali aberrazioni e dagli stessi onori riservati agli asini in occasione della Festa dei folli di medievale memoria, rimane il fatto che l’asino è talora assurto alla dignità di cavalcatura privilegiata dei signori d’Egitto e degli stessi Immortali cinesi, che si facevano trasportare da asini bianchi.
Sorge allora il sospetto che il paziente animale fosse considerato sacro o diabolico a seconda del manto, con una scala di valori avente agli estremi il bianco e il rosso.

È poi fuor di dubbio che un certo peso l’abbia avuto il sesso, penalizzante – contrariamente a quello umano – per gli esemplari maschi. Asina era infatti la bestia con cui la Sacra Famiglia fuggì in Egitto, asina quella montata dal Messia la Domenica delle Palme, asina l’animale che avvertì Baalam della presenza di un angelo mandato da Jahvè. Asine andò a cercare dopo averle perdute, Samuele. E asine cavalcavano in Sicilia i curati di campagna, i questuanti, i barbieri e gli altri artigiani rurali che nella stagione delle messi giravano di aia in aia per riscuotere i crediti in natura che vantavano nei riguardi dei contadini. Asinelle della razza sarda tiravano a Palermo i carretti degli erbivendoli, degli acquaioli e dei gelatai. Asine sono, naturalmente, le fattrici di asini e di muli, dispensatrici del latte che più di ogni altro somiglia a quello umano, lo stesso con cui si lavavano le matrone e gli effeminati damerini della Roma imperiale.

Di ben più scarsa considerazione hanno goduto in tutti i tempi gli asini maschi. Senza spingersi fino al Medioevo quando i vizi degli uomini venivano rappresentati dai pittori con sembianze asinine, è risaputo che, a parte i pochi esemplari destinati alla funzione riproduttiva, quasi tutti gli altri asini venivano “sanati”, vale a dire castrati. E l’ingenerosa sorte accomunava i rimanenti figli d’asina, somarelli o muli che fossero, e i cugini cavalli e bardotti, che pure avevano per madre la giumenta.

È vero, in giro per l’Italia preindustriale, qualche asino “nteru” si sentiva di quando in quando ragliare, oltre a quelli da monta; ma, o apparteneva ad un padrone che lo sottoponeva a fatiche da mulo, o veniva adibito a lavori ancora più usuranti, come il trasporto di pietrame, gesso e calcina, oppure doveva far girare norie, mulini, frantoi… gli occhi bendati come un malfattore affidato alle cure del boia: era, insomma, asino con tanto di attributi ma anche con qualche “custana”(guidalesco) di troppo. Custana che non cicatrizzava certo con un semplice strofinamento di foglie d’agave né tanto meno con applicazioni di rospi spaccati, come suggerivano taluni maniscalchi sedicenti esperti di veterinaria empirica. L’unico vero ma blando rimedio contro quelle brutte piaghe – impacchi tiepidi di acqua ai fiori d’arancio – lo conosceva per conto suo solo il villano. Era lui l’amico più sincero dell’asino.

Con esso spesso condivideva una casetta di un solo vano, peraltro anche ostello del maiale, del cane, della gatta, della tartaruga e delle galline. Soltanto lui, il contadino, lo puliva e gli toglieva le cispe dagli occhi. Lui vigilava per evitare che il basto non gli rovinasse la schiena.

«Ogni notte – scriveva nel 1884 il barone dei villani Serafino Amabile Guastalla – si alza tre o quattro volte dal letto e con amorosa insistenza osserva se non manchi di paglia, se sia sdraiato, se per caso la cavezza non gli si attorcigli alla strozza. II giorno di San Vito fa benedirlo dal prete, perché il Santo lo preservi dai morsi dei cani idrofobi e fa benedirlo nel giorno di San Silvestro, perché il glorioso pontefice lo difenda dai lupi. I figli spesso strillar! per fame, ma all’asino non manca mai il manipoletto del fieno, un pugno d’orzo, o se non altro, la paglia».

Posto davanti al dilemma «di scegliere fra la morte della moglie o del ciuco», il contadino «non sarebbe in forse un minuto. Un’altra donna è presto trovata, ed egli ha il beneficio di un’altra dote, e della carne fresca… ma invece a comprare un altr’asino s’impantanerebbe nei debiti e a trarsene fuori ci vorrebbe l’aiuto di Dio». Insomma, sapesse scolpire, il contadino farebbe sicuramente una statua all’asino, prima di vederlo scomparire dalla faccia della terra, come è già successo all’asino di Pantelleria (che a fatica si è finalmente riusciti a riportare in purezza): l’ultimo esemplare era morto annegato, malgrado lo speciale albo genealogico ottenuto già negli anni Venti del secolo scorso, come l’altrettanto celebre asino di Martina Franca.

Ma chi gliela fa la statua all’asino, se lo sfortunato animale è stato snobbato perfino dallo scultore Pietro Giambelluca il quale, pur animato dal nobile proposito di recuperare l’identità culturale della sua gente, ha scolpito la Madre Madonita in groppa a una mula, per collocarla all’ingresso di un paesino, il suo, che fra i nomi passati ha avuto anche Asinello e Rocca d’Asino? Non è tuttavia il caso di volergliene, all’artista, dato che lo stesso sant’Eligio, protettore degli asini, non ha mai fatto una grinza nel vedersi raffigurato dall’iconografia devota siciliana nell’atto di benedire un cavallo mutilato. È già tanto che la bistrattata bestia sia stata oggetto d’attenzione della pittura paesistica di fine Ottocento che (ad onta delle critiche di cui è stata a suo tempo oggetto da parte dei futuristi) adesso svela una Sicilia dimenticata, paesaggi ancora integri, valori e rapporti d’armonia non più esistenti.

Ad ogni buon conto, non di statue o di benedizioni formali ha bisogno al giorno d’oggi l’asino, ma di protezione vera; e non solo perché per la sua leggerezza il latte d’asina può sostituire degnamente quello umano nell’allattamento di neonati con problemi intestinali; ma anche perché da qualche tempo è tornato ad avere un ruolo nella cosmesi. A detta degli esperti, il latte d’asina è infatti ben tollerato da qualsiasi tipo di pelle. Ricco com’è di nutrienti (vitamine A, B1, B2, B6, C, D, E), minerali ed oligoelementi (calcio, magnesio, fosforo, ferro, zinco), acidi grassi polinsaturi (omega 3 e omega 6), proteine e aminoacidi, permette un ottimale trattamento cosmetico «con proprietà idratanti, rigeneranti e nutrienti».

L’asino può ancora assolvere ad un ruolo importante per la carne che dà, ma soprattutto come testimone di millenni di storia e di civiltà contadina da recuperare all’interno delle iniziative di sviluppo rurale e dei programmi di animazione didattica e educazione ambientale. Nelle isole minori e nelle aziende agrituristiche la mansueta cavalcatura della Sacra Famiglia può diventare uno dei mezzi di locomozione ricreativa e culturale, a tutto vantaggio della riscoperta del bello della campagna e dei segni di ciò che per lungo tempo è stata.

E bisogna riconoscere che questa consapevolezza nella nostra isola comincia a crescere. «Ad oggi – si legge sul Portale dell’innovazione della Regione Siciliana –, secondo dati forniti dall’Istituto per l’Incremento Ippico Regionale la consistenza degli animali si aggira sui 500 capi, di cui 350 fattrici.

Gli allevamenti sono ubicati prevalentemente nella provincia di Ragusa dove si concentra il 95% del patrimonio asinino siciliano. Questa presenza significativa nelle campagne iblee ha portato alla costituzione del registro anagrafico dell’Asino Ragusano.

Nel resto del territorio isolano ed in particolare in provincia di Agrigento e Catania si contano allevamenti di recente costituzione specializzati nella produzione di latte. Esiste infatti, a livello regionale, una crescente richiesta di latte di asina, ricercato in modo particolare, per le sue proprietà (contenuto medio di caseina ed albumine assai prossimo a quello ritrovato nel latte umano e basso potere allergenico) che ne consentono l’utilizzo, con effetti positivi, a neonati affetti da allergie multiple.

Per far fronte alla perdita del patrimonio genetico asinino e contemporaneamente alle richieste del mercato, sono stati realizzati degli allevamenti sperimentali di asini per la produzione ed il confezionamento del latte, la cui utilizzazione potrà trovare diffusione al di fuori dei tradizionali mercati del consumo del latte».

Ma già nel 1999 alle pendici del Pizzo Vuturo, a pochi passi dalle dismesse “pirrere” di gesso di Villafrati (nell’hinterland palermitano), aveva cominciato ad operare Asinalat, un’azienda che adesso alleva più di ottanta asine fattrici, che producono latte biologico.

Per la mungitura l’azienda si avvale di un moderno impianto meccanico appositamente ideato per assicurare la totale salubrità del prodotto.

È un esempio, questo, per molti aspetti vincente, soprattutto perché il terreno dove vengono coltivati i prodotti biologici di cui si nutrono le asine è stato per diversi secoli calpestato e concimato dagli asini dei gessai che trasportavano il materiale gessoso estratto dalle “pirrere” fino alle “carcare” (fornaci), dove veniva preparato il gesso da muro che poi gli stessi asini portavano ovunque ce ne fosse bisogno.

Pippo Oddo [articolo tratto dai social]

Di Treman

1 commento su “L’ASINO E LA SICILIA SVELATA”
  1. Questo articolo ha obiettivi divulgativi ma in alcuni punti è lirico tanto da farmi andare a leggere chi l’avesse composto: persona cui vanno i miei modesti complimenti, modesti poichè sono una lettrice, ma non una critica letteraria. Grazie per la piacevole lettura e per le mail che mi mandate.

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