Il primo impatto con la Sicilia mentre si atterra a Punta Raisi, l’aeroporto di Palermo, è il mare, che ti sembra di toccarlo dall’aereo. Il Ráis o Ráisi (dall’arabo Raís, come Gheddafi e Saddam Hussein, cambia solo l’accento) è in siciliano il capo delle operazioni di pesca nelle tonnare. E l’aeroporto sorge a picco sul mare in un piccolo promontorio accanto a un’antica tonnara, la tonnara dell’Orsa (il nome non c’entra nulla con l’omonima mammifera, che qui si sentirebbe abbastanza spaesata, viene invece, probabilmente, tanto per cambiare, dall’arabo Marsah, “porto”) .
Il secondo impatto, almeno per me, è botanico. Adesso hai preso le valigie, e sei in macchina o, ancora meglio per osservare il paesaggio, in bus o in treno, o a piedi o in bicicletta, come vuoi, in ogni caso sei nella strada che da Punta Raisi porta a Palermo.

La Sicilia, prima di tutto, è molto fertile. L’inverno palermitano è verde. In realtà quello che i palermitani si ostinano a chiamare inverno, nel resto del mondo temperato è conosciuto sotto il nome di primavera. Fanno eccezione qualche sparuta gelata e qualche sporadica nevicata, soprattutto sulle belle montagne, molto scoscese, che cingono la città: il Monte Cuccio supera i mille metri, partendo praticamente da zero, mentre il Monte Pellegrino, da sempre la montagna sacra della città, supera i 600 metri, che non sono pochi visto che è una specie di grande scoglio calcareo che separa Palermo dalla sua spiaggia più famosa, Mondello.

Una buona parte degli alberi della Conca d’Oro, evocativo nome della piana dove è adagiata Palermo, non ingialliscono né perdono le foglie: olivi, palme, nespoli, oleandri, eucalipti (gli unici che si concedono un po’ di beige e qualche foglia per terra regalandoci il loro profumo balsamico), pini, cipressi e poi ovviamente gli agrumi, con le loro foglie lucide, verde-scuro e i loro frutti dorati. Abbondano anche erba ed erbacce, anche loro verdissime, in campagna e in città, dove s’infiltrano nelle crepe dei marciapiedi insieme, a volte, alla Kalanchoe daigremontiana, pianta « succulenta » (nome scientifico delle piante grasse) e bruttina, originaria del Madagascar, che ha nomi volgari molto suggestivi come « Madre di migliaia » per il suo potere infestante o addirittura « Spina dorsale del diavolo ».

Alcuni la considerano tossica ma ci sono studi che parlano, come per la sua cugina decisamente più bella Aloe arborescens (anche lei molto presente lungo la strada) di notevoli proprietà per la prevenzione e la cura di tumori (quest’ultima pianta potrebbe indurre, per esempio, le cellule tumorali a suicidarsi). Per quanto mi riguarda, come esperimento, ho trangugiato frullati di Aloe, whisky e miele e perfino mangiato una foglia di Kalanchoe al giorno per un mese senza nessun effetto collaterale.

Il gusto non è dei migliori, allappa un pochino, ma alla fine ti ci affezioni.
Ma torniamo a noi. Ho dimenticato i Cactus: sono enormi, in città e in campagna, nei cortili delle case, nelle rotonde, mi fanno pensare a degli alberi di natale, non so perché. Poi gli onnipresenti Fichi d’India, con i loro frutti colorati che per lo più, benché squisiti, rimangono oziosi sulla pianta, proteggendosi dalla cupidigia umana con le loro spine invisibili. Riconoscibilissimo l’albero del pepe rosa, originario del Peru, con le sue foglie a pettine e le sue bacche, sempreverde molto popolare in città. Se strofini le foglie, senti l’odore del pepe fresco, anche se poi le mani ti rimangono appiccicose.

I Tronchetti della felicità, con la loro promessa vaga ma attraente, riempiono i cortili.
Peru, Madagascar… Il clima e la vegetazione sono, come avrete capito, sub-tropicali, come diceva il mio sussidiario delle elementari (o era il libro di geografia delle medie?).

Il re degli alberi palermitani è senza dubbio il Ficus Magnolioides (altro sempreverde), una specie di Magnolia gigante dalle lussureggianti radici aeree: calano dall’alto, corteggiano la terra, senza fretta ma senza mai demordere si avvicinano ogni anno di qualche centimetro per poi finalmente unirsi voluttuosamente al suolo, attraversando il selciato se necessario. Una volta ancorate, le radici diventano tronco. Un nuovo albero è nato, ma non un albero singolo, attenzione: i ficus sono sistemi vegetali, comunità, famiglie allargate, continenti albereschi.

Nell’orto botanico c’è un ficus, che è padre (o madre) di tutti i ficus dell’isola e pare addirittura d’Italia. Perfino i ficus delle ville di Sanremo sarebbero suoi discendenti diretti. Fu importato nel 1845 da un’isoletta australiana. Nella sua furia espansionistica ha mangiato altri alberi e attraversato il muro finendo per invadere una fabbrica abbandonata. In via delle magnolie, invece, le radici dei ficus hanno distrutto i marciapiedi.

I palermitani, arresi, hanno costruito delle passerelle sulle radici che consentono di passare, per ora. Sui forum online qualcuno dice: « C’erano prima loro, ora sta a noi adattarci ». Come dargli torto?
Palermo abbonda anche, soprattutto lungo le strade, di altri alberi di cui quasi nessuno sa il nome. Presentano enormi spine su un tronco obeso e a forma di pera. Inoltre producono dei frutti verdi abbastanza grandi che esteriormente sono una specie d’incrocio tra un avocado e un mango ma ad aprirli contengono solo dei piccoli semi marrone, a loro volta protetti da una sostanza biancastra e lanuginosa. Probabilmente si tratta di esemplari di Ceiba Speciosa.

In fine la Sicilia è quasi sempre fiorita. Se in altre zone del mondo temperato i fiori sono una prerogativa della primavera, qui sono un’evidenza atemporale, come il cielo e il mare. Siamo in molti ad apprezzare il profumo della zagara, il fiore degli agrumi, e dei gelsomini, due profumi che un po’ si assomigliano, fragranti, raffinati, delicati (anche se d’estate il gelsomino si sente da lontano…) ma pochi riconoscono l’odore molto meno chic (per alcuni nauseabondo, a me piace) dei fiori gialli della colza, Brassica napus.

Colza che, essendo della famiglia delle Brassicacae, come la rucola e il cavolo, la senape e le rape, ha foglie commestibili (credo) che all’assaggio hanno il sapore pungente delle foglie dei broccoli o delle cime di rape.
Qui la natura non è addomesticata come quella toscana, regione dove sono cresciuto. In Sicilia ci sono gli insediamenti umani e c’è la natura. Queste due dimensioni convivono, si sovrappongono, come l’erba nelle crepe, oppure si scontrano, come i ficus nei marciapiedi, ma non si fondono mai in un quadro completamente armonioso. Rimangono dimensioni parallele.

Nel viaggio tra Punta Raisi e la città è chiaro che l’essere umano è qui una comparsa, un ospite che dopo un po’ puzza di pesce, una parentesi, un tema minore nella grandiosa sinfonia della natura. A destra le montagne, non altissime ma scoscese e irraggiungibili (a volte si scorgono caprette equilibriste). A sinistra gli scogli pullulanti di granchi e poi il mare, enorme, bianco di spuma o blu di abissi. Nel mezzo una striscia umana, un’autostradina teatro di stragi mafiose, un binarietto, un supermercato, una concessionaria auto in disuso, un benzinaio, un muretto a secco, delle casette, dei giardini, delle bancarelle che vendono panelle (farina di ceci fritta), qualche trenino, addirittura uno zoo in miniatura (direbbe Walt Whitman: Affari, commerci, negozi, lavoro, fattoria/ Vestiti, la casa, comprare, vendere, mangiare, bere, soffrire, morire). Siamo nella cronaca, tutto è relativamente fragile e piccolo, aneddotico, rispetto all’immensità della natura.

E perfino la torre diroccata che troneggia sull’Isola delle Femmine, isolotto abitato solo da gabbiani, sembra ormai appartenere più alla natura che all’architettura. Perfino a Palermo, a volte, se cammini per esempio in una di quelle innumerevoli stradine senza marciapiede, incredibili spazi urbano-rurali in cui Palermo sembra fondersi con la Conca d’Oro che la ospita, con pecore, aranceti, vivai, cani, pizzerie, decine di ville settecentesche, e alla tua destra un giardino lussureggiante, alla tua sinistra un terreno coltivato o un aranceto abbandonato, davanti a te Monte Cuccio e dietro di te Monte Pellegrino. La città sembra improvvisamente ridursi a quel pezzo di asfalto che stai calpestando, largo un paio di metri appena, e perfino quello ti sembra un miraggio, una svista che le erbacce lottano per correggere.

Nella campagna toscana, almeno in quella fiorentina e pratese, che conosco meglio, l’uomo sembra aver vinto sulla natura su cui esercita un dominio mite, un despotismo illuminato, ma pur sempre un dominio. Qui no. Certo, il mare, certo, le rocce, gli scogli, il sale, il vento, le nuvole, le zanzare, i pipistrelli, quello che volete, ma soprattutto, soprattutto le piante… sono le piante di Palermo che giorno dopo giorno riaffermano silenziosamente il dominio lento e mansueto della natura sull’essere umano.

Andrea Verga tratto da: culturedessinee.com

Di Treman

1 commento su ““Le piante di Palermo” di Andrea Verga”

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