Abbiamo voluto riproporre nel nostro sito un lungo articolo del professor Luigi Mariani, docente universitario, che tratta sui limiti del biologico come sistema di coltivazione.
Nel coltivare la terra da appassionati spesso ci imponiamo di seguire i dettami del biologico per essere in linea con i riferimenti normativi. Mentre molti altri continuano giustamente con il convenzionale. Ognuno di noi che coltiva la terra per passione o per lavoro deve decidere come coltivare e cosa coltivare. Ecco che ci dobbiamo sempre fare delle domande e le nostre scelte sono dettate dalla nostra esperienza e dal mettere in pratica i consigli di altri.
Faccio un esempio stupido: quest’anno ho deciso di utilizzare per la prima volta il macerato di ortica contro gli afidi che colpiscono le mie piante di susine e prugne in primavera. Comincerò ad utilizzarlo in prevenzione e vediamo i risultati… al posto di un insetticida chimico molto efficace e duraturo.
Ecco perchè pubblicare questo articolo di Luigi Mariani mi è sembrato molto utile perchè accende i riflettori su riflessioni che bisogna fare senza cadere nel radicalismo.
L’ideologia del bio (-logico o -dinamico) si riferisce all’attività che è biologica per eccellenza e cioè l’agricoltura, pretendendo di riportarla ad una purezza primigenia che poi sarebbero le tecniche in uso prima della rivoluzione scientifica dell’ottocento (per il biologico) o una congerie di procedure a base magica (il biodinamico).
Che male c’è un tutto ciò, diranno i lettori?
Il danno, vedete, è soprattutto culturale ed è enorme in quanto chi fa bio non si accontenta di sfruttare le nicchie di mercato che sarebbero il loro naturale punto d’approdo ma al contrario propone una vera e propria palingenesi che imponga all’intera agricoltura mondiale il proprio punto di vista, rifiutando quel bagaglio di innovazioni che è stato alla base della rivoluzione verde che oggi ci consente di nutrire il mondo più e meglio di quanto si sia mai fatto in passato (la percentuale della popolazione mondiale al di sotto della soglia di sicurezza alimentare è scesa dal 50% del 1945 al 10% odierno).
Rispetto alle derive bio non va peraltro ignorata l’analogia con quanto sta avvenendo nel mondo della medicina, chiamata a confrontarsi con medicine alternative che propugnano ritorni ad improbabili paradisi pre-scientifici, ed in questo apprezzo moltissimo da un lato le coraggiose prese di posizione della professoressa Elena Cattaneo e dall’altro le posizioni assunte dall’ordine dei medici rispetto ad alcune pratiche dannose legate alle medicine alternative.
Di fronte all’utopia totalizzante del bio, per la quale trovo calzantissimo il paragone con il luddismo, l’agronomo è più che mai chiamato a prendere posizione, se non altro in base al concetto (chimica inorganica – primo anno di agraria) per cui una molecola di urea che proviene dalla pancia di un mammifero non è in alcun modo diversa da un’analoga molecola di urea prodotta a partire dall’azoto atmosferico con il benemerito processo messo a punto da Haber e Bosch ai primi del ‘900 e che ci consente oggi di sopperire al 50% del fabbisogno proteico dell’umanità (Smil, 2012).
Peraltro quello del bio è un “tormentone” che ci viene continuamente propinato da tutti i grandi media, dai quali il bio ci arriva condito da slogan di salvataggio del pianeta, lotta ai cambiamenti climatici, cibo puro, sostenibilità, cibo più gustoso, ecc. ecc.
Gli slogan più ricorrenti
Vediamo di sottoporre a critica alcuni degli slogan che vengono ad ogni piè sospinto riproposti in tema di Bio.
Bio non usa pesticidi: falso, nel senso che usa pesticidi di vecchia generazione (es: solfato di rame che persiste nel terreno per tempi indefiniti, insetticidi dannosi per la flora acquatica e la microflora del terreno).
Bio vuol bene alla natura: vediamo cosa c’è scritto sull’etichetta di alcuni pesticidi usati nell’agricoltura biologica: nei formulati insetticidi a base di Spinosad e Azaridactina si legge “Altamente tossici per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata.” (il secondo poi è un perturbatore endocrino). La poltiglia bordolese poi è: “nociva se inalata, provoca gravi lesioni oculari, molto tossica per lunga durata per gli organismi acquatici ”.
Bio vuol bene alle piante: è falso perché
usando prodotti fitosanitari antiquati non le si difende adeguatamente dai nemici (sarebbe come se contro malattie umane terribili – polmonite, peste, vaiolo, colera, sifilide, ecc. – si rinunciasse all’uso degli antibiotici rinnegando le regole più elementari della nutrizione vegetale si affamano le piante negando loro il necessario apporto di nutrienti.
Bio fa bene al consumatore: sul piano della salubrità non si dovrebbero mai scordare i 54 morti e i 10 mila ricoveri in ospedale avvenuti i Germania e Francia nel 2011 a seguito di consumo di germogli di fieno greco prodotti da una azienda biologica tedesca e che contenevano tossine prodotte dal ceppo O104 di E. coli (Frank etal, 2011). Sempre sul piano della salubritàsi ricorda l’articolo “Non crediamo in bio – La frutta e la verdura in commercio non sono più ricche di nutrienti né più salutari di quelle tradizionali. Ecco le prove.” uscito tempo fa su Altroconsumo (Freshplaza, 2015). In tale lavoro si ponevano a confronto alimenti bio con alimenti convenzionali mostrando la sostanziale equivalenza in termini di salubrità (salvo che per contenuto in nitrati per il quale i prodotti bio erano peggio rispetto ai convenzionali). Sul piano economico si rimanda invece al punto successivo.
Bio è sostenibile sul piano economico: per l’imprenditore agricolo può esserlo a patto di trovare “amatori” in grado di spendere il doppio o il triplo per lo stesso identico prodotto, visto che la produttività del bio è molto più bassa e i costi di produzione più elevati (basti pensare che il diserbo a mano di 1 ettaro di risaia comporta 450 ore di lavoro l‘anno contro meno di 10 ore l’anno richieste dal diserbo chimico).
Bio è sostenibile sul piano ambientale: è falso poiché se con una decisione sciagurata si decidesse di elevare tali agricolture a uniche agricolture a livello mondiale il risultato sarebbe che si dovrebbero raddoppiare le terre coltivate con effetti ambientali catastrofici (addio boschi e praterie). Siamo infatti parlando di una tecnologia che produce se va bene il 50% in meno di quella convenzionale, per cui i conti sulle necessità di suolo sono presto fatti.
Bio combatte i cambiamenti climatici: è falso. Se si fosse tradotto in legge il sogno di tutti i seguaci del bio e cioè quello di fermare le tecnologie in agricoltura a quelle in uso negli anni ‘60, per soddisfare l’aumento di domanda indotto dal passaggio dai 3 miliardi di abitanti del pianeta del 1960 agli oltre 7 miliardi odierni gli arativi sarebbero dovuti passare dagli 1,5 miliardi di ettari attuali a 3,2 miliardi di ettari e le emissioni annue del settore agricolo sarebbero salite dagli 1,4 miliardi di tonnellate di carbonio attuali a ben 6 miliardi, secondo stime effettuate da Burney et al. (2010).
Bio è naturale perché valorizza le varietà antiche: le varietà antiche sono le uniche in grado di essere gestite con le tecnologie antidiluviane adottate in ambito Bio. Se tali tecnologie fossero applicate a varietà moderne (più esigenti in termini di nutrizione, irrigazione e difesa) il risultato sarebbe il fallimento completo delle colture.
Alcune deduzioni
A fronte degli elementi problematici sopra esposti osserviamo attoniti che la moda del bio viaggia a gonfie vele. A Milano stanno sorgendo catene di supermercati specializzati in tale segmento di mercato e non è raro che ad essi il Corriere della Sera dedichi pagine intere. Spiace anche che come propugnatori di tale forme di agricoltura troviamo non solo persone del tutto prive di competenze agronomiche come il Ministro delle Politiche agricole Martina ma anche giovani laureati che almeno in teoria dovrebbero essere più critici e aperti all’innovazione e. Ad esempio a pagina 9 del Corriere Milanese del 6 gennaio nell’articolo “Coltivare un orto bio a distanza: tutti contadini grazie a una app“ a firma di Stefano Landi (qui) scopriamo che tre giovani laureati (un fisico, un economista e un ingegnere gestionale) hanno sviluppato una app che consente ai consumatori di porsi in contatto con orti bio seguendo le coltivazioni e acquistando i prodotti. Il prototipo di orto è tanto per cambiare presso l’azienda diGiulia Maria Crespi, nella periferia sud di Milano ove si pratica il biodinamico.
Ai giovani laureati di cui sopra vorrei ricordare che per ragionare in modo corretto di agricoltura occorre acquisire un minimo di competenze agronomiche in tema di miglioramento genetico, nutrizione dei vegetali e difesa delle colture dai loro nemici (malerbe, funghi, insetti, …). Senza questo bagaglio culturale di base (che si acquisisce in un corso di agronomia generale e che il mondo urbano ritiene a torto del tutto superfluo) si finisce per forza irretiti dalle sirene alla moda.
Penso allora che occorra tornare a pensare con la propria testa per smontare le sovrastrutture dettate dall’ideologia e tornare a cogliere che:
l’agricoltura è attività biologica per eccellenza in quanto sfrutta la fotosintesi per produrre cibo e altri beni di consumo, in agricoltura non importa come produci ma importa che alla fine il tuo prodotto risponda ai requisiti qualitativi previsti dalle normative vigenti. Da questo punto di vista è eticamente scorretto indicare ai nostri concittadini i prodotti biologici come prodotti più sicuri in quanto la sicurezza è una cosa seria e non può essere che frutto di un sistema di controlli efficiente e indipendente rispetto al produttore additare come obiettivo per il futuro forme di produzione agricola antiquate è eticamente riprovevole (come lo fu in passato il luddismo) in quanto in grado di portare al dilagare delle carestie a livello mondiale, specie nei paesi in via di sviluppo.
È riprorevole usare slogan che ammantano tali tecnologie antiquate di un’aura di sostenibilità additandole come sistemi atti a “salvare il pianeta”.
È necessario riaffermare che la piena sostenibilità dell’attività agricola può essere perseguita unicamente attraverso l’uso delle migliori tecnologie oggi disponibili nel campo delle tecniche colturali (agricoltura conservativa, difesa integrata, agricoltura di precisione, aridocoltura, ecc.) e della genetica (OGM e non solo). E’ proprio con l’ausilio di tali tecniche che è possibile pensare in futuro a ridurre l’impiego dei mezzi chimici, che restano comunque insostituibili in ambito agricolo come lo sono in medicina umana.
Conclusioni
Purtroppo le considerazioni che ho sinteticamente riportato non trovano spazio sui grandi media, che anzi arrivano addirittura a promuovere i propugnatori delle tecnologie bio ad “eroi culturali” (una sorta di riedizione in chiave post-modern dei sovietici “eroi del lavoro”).
In tal senso trovo emblematico l’articolo “Eroi culturali della sostenibilità. Salvare il pianeta in 17 scatti” (Corriere della sera, 30 novembre 2017 – qui) in cui si promuove il Calendario Lavazza 2018. E qui si scopre che il prototipo di “Eroe culturale” è nientemeno che Carlo Petrini, perché fautore di un’agricoltura sostenibile, di un’economia giusta e di una realtà che rispetti l’ambiente e le persone. Continuiamo a farci del male!
Chi è l’autore del testo:
Docente di Storia dell’ Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura di Sant’Angelo Lodigiano. E’ stato anche Docente di Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e Presidente dell’Associazione Italiana di Agrometeorologia.